Già dal 2021 il mercato dei cambi avbeva registrato movimenti pronunciati e negli ultimi mesi il dollaro statunitense è stato il vincitore indiscusso. Solo nel 2022, il biglietto verde si è rivalutato di circa il 10% sull’euro. Uno dei motivi è il fatto che la Fed ha aumentato i tassi d’interesse di riferimento portandoli al 3,75-4% rispetto allo 0,00-0,25% di un anno fa.
“La Bce è chiaramente “dietro la curva”, anche se ovviamente il suo compito è molto più complesso. Pertanto, il differenziale dei tassi d’interesse, ossia il divario tra i rendimenti, sull’intera curva dei titoli di Stato tedeschi e statunitensi è considerevole. Al momento però sembra che il dollaro tenda a indebolirsi“. A farlo notare è Philipp Vorndran, Capital Market Strategist di Flossbach von Storch, che di seguito illustra nel dettaglio la propria visione.
I motivi sono vari. Innanzitutto, in concomitanza con le elezioni di mid-term negli USA, si è verificato un “effetto elastico” nei tassi di cambio euro-dollaro e yen-dollaro. In altre parole, dopo circa due anni di rialzo del dollaro, i tassi si stanno ora muovendo verso il basso. Altrettanto determinante per il temporaneo indebolimento del dollaro sono state la discussione sul picco dell’inflazione negli Stati Uniti e le dichiarazioni della Fed al riguardo.
Quindi la tendenza si è invertita? Dobbiamo tornare a coprire gli investimenti in dollari statunitensi? A nostro avviso, questa è una domanda che dovrebbe porsi solo chi ha meno del 50% del patrimonio investito nell’area euro. Riteniamo infatti che la diversificazione valutaria rimarrà essenziale anche in futuro, non da ultimo perché lo spread dei tassi d’interesse – ovvero il confronto tra i rendimenti dei Treasury statunitensi e dei Bund tedeschi a un anno – gioca a sfavore dell’euro. E l’Europa continuerà a perdere competitività.
Qualcuno spera che in futuro la FED possa togliere il piede dal freno con più convinzione rispetto alla Banca Centrale Europea (BCE), in modo che le politiche monetarie sulle due sponde dell’Atlantico tornino ad allinearsi. Ed è molto probabile, dopo tutto gli effetti della politica monetaria arrivano con un certo ritardo e, visto che di recente l’inflazione statunitense ha mostrato una prima reazione ed è calata, il presidente della Federal Reserve Jerome Powell potrebbe rallentare il ritmo di rialzo dei tassi. E non è detto che poi riprenda a inasprirli più avanti. Una cosa però è certa: Jerome Powell ha il vantaggio di potersi concentrare sul compito principale di una banca centrale, ovvero la stabilità monetaria.
È innegabile che per le aziende europee un euro debole sia stato senz’altro utile: nel 2022, oltre all’inflazione, a trainare gli utili aziendali sono stati anche i movimenti valutari. Per le società statunitensi, invece, il dollaro forte ha rappresentato un ostacolo. Per l’intero anno, gli analisti prevedono un aumento degli utili del 7,7% per le azioni statunitensi rispetto al 10% circa dell’indice globale MSCI World e alla crescita a due cifre delle azioni europee.
Le stime sugli utili per il 2023 sono però più modeste. E ora anche l’effetto valutario tende a invertirsi. Il mercato azionario statunitense può quindi contare su un certo supporto. Inoltre, l’indice azionario statunitense S&P 500 contiene meno titoli ciclici rispetto alla controparte europea – altro aspetto che dovrebbe aiutare.
Noi cerchiamo azioni di qualità e al momento le stiamo trovando più spesso negli Stati Uniti che in Europa o in Asia. Gli investitori dovrebbero puntare soprattutto su società accuratamente selezionate, in grado di generare utili sostenibili nonostante la crisi, a prescindere che le loro azioni siano quotate a New York, a Francoforte o a Zurigo.